I MIEI EDITORIALI

EDITORIALE 3

Il Campus immaginario rimarrà tale?

In ‘Trenta e lode” ho raccontato le vicissitudini, le emozioni e i sogni dei personaggi all’interno di un contesto ben preciso: il futuro campus universitario forlivese che nel giro di qualche anno arriverà a compimento, diventando così, nell’immaginario collettivo, il cuore pulsante di una città alla ricerca di un definitivo salto di qualità economico-culturale.
Da qualche giorno queste mie certezze però si sono scontrate con una realtà che sembra volersi fare beffa proprio dei lavori di costruzione, ormai giunti al termine, della cittadella universitaria. Mi è giunta voce infatti che alcuni rappresentanti delle strutture accademiche forlivesi abbiano deciso di abbandonare il virtuoso decentramento avvenuto con la nascita del modello Multicampus, per tornare, facendo un salto indietro di vent’anni, sotto le aristocratiche e millenarie ali protettive dell’Alma Mater bolognese. Questa scelta (spero di tutto cuore non definitiva…) nasce dall’esigenza di adeguarsi alla c.d. “Riforma Gelmini”, diventata legge alla fine del 2010, che obbliga tutti gli Atenei italiani di rivedere i propri organi di governo, di razionalizzare corsi di laurea, di eliminare sostanzialmente le Facoltà e di realizzare dei Dipartimenti, notoriamente fulcro della ricerca universitaria, capaci di organizzare anche attività didattica. Praticamente una rivoluzione. Qualcosa che, sebbene molti dell’ambiente universitario facciano finta di nulla, cambierà probabilmente il volto dell’università italiana. La “legge Gelmini” al contempo è stata concepita in modo tale da dare margine di manovra agli Atenei per organizzarsi con una certa autonomia anche aggirando (per cosi dire “all’italiana”) alcuni principi generali che permetterebbero, ad esempio, la sopravvivenza di sedi decentrate come quella romagnola. Questa volta però dopo anni di proliferazione di corsi di laurea creativi, la fantasia sembra essersi sopita dalle menti dei nostri capi struttura e rappresentanti istituzionali. Ma facciamo ordine.

1989: L’università sbarca a Forlì. Si gettano le prime basi per insediare in città le Facoltà. Si inizia con il trasferimento di alcuni corsi di laurea, con la istituzione di una segreteria studenti, di segreterie didattiche, di una Foresteria e di una biblioteca universitaria. A poco a poco gli spazi e le strutture prendono corpo, gli investimenti cominciano a pervenire anche da enti privati interessati al grande progetto.

2000: Anno simbolo in quanto nasce la Facoltà di Scienze Politiche di Forlì e, a ridosso di questo periodo, anche altre Facoltà raggiungono la loro autonomia. Viene costituito il Polo scientifico-didattico, il quale ha il compito di coordinare le strutture accademiche presenti nella città. Il modello Multicampus quindi è realtà: Forlì, Ravenna, Cesena e Rimini diventano quattro piccoli centri universitari autonomi sia dal punto di vista della didattica che dell’amministrazione. I docenti che hanno voluto e portato a compimento questo progetto ambizioso credono nella capacità delle città romagnole di saper attrarre studenti, di saper fornire loro servizi di qualità e di poter regalare quell’efficienza forse un po’ smarrita nel marasma del capoluogo felsineo. Lasciando comunque a Bologna le sedi dei loro Dipartimenti di ricerca, i professori credono nel progetto di insegnare didattica in terra romagnola: investono in corpo docente assumendo nuovi ricercatori e professori entusiasti di impartire lezioni e cultura in una nuova realtà come quella forlivese. Anche il personale-tecnico amministrativo cresce di numero: vengono svolti diversi concorsi a tempo indeterminato per dare garanzia di continuità ai servizi nelle sedi decentrate.

2001: Le università applicano il Decreto ministeriale DM 509/99 e inizia l’era del 3+2. Le Facoltà italiane si ingegnano così a stimolare i giovani sia ad iscriversi in numero maggiore all’università sia ad introdurli nel mondo del lavoro in modo più celere e professionale; anche l’Università di Bologna e le sue sedi decentrante accettano la sfida e istitutiscono corsi di studio dai nomi più curiosi per cercare di innalzare il livello di preparazione dei giovani. Ovviamente per portare avanti determinati obiettivi formativi le assunzioni a tempo indeterminato del corpo docente proseguono e, di pari passo, per i tecnici amministrativi si iniziano a sottoscrivere contratti di collaborazione a progetto a tempo determinato per sorreggere i servizi delle strutture che appaiono, alla luce del costante ampliamento, sempre più bisognose di personale.

2008: Viene applicato il DM 270/04. Le università, che con il precedente DM avevano cercato di dare stimolo ed interesse ai futuri studenti universitari italiani ampliando esageratamente l’offerta formativa, nell’applicare il 270 cercano di razionalizzare la didattica risparmiando un po’ di risorse. Si accende un primo segnale d’allarme: dopo tanta espansione, le università devono ridurre i costi per poter continuare le loro attività accademiche.

2010: Le legge Gelmini, come detto in precedenza, rivoluziona l’organizzazione accademica italiana avvicinandola a quella degli Stati Uniti o di altri paesi europei. Con la riforma l’università deve cercare di trovare più modernizzazione e risparmi di risorse. Ovviamente a farne le spese saranno i c.d. “Atenei in rosso” o gli “Atenei con sedi decentrate”. Inevitabile quindi un ripensamento di tutto l’apparato organizzativo dell’Università di Bologna. Anche i concorsi per l’assunzione di docenti universitari vengono rivisti e rivoluzionati. I Ministri Brunetta e Tremonti bloccano l’assunzione dei tecnici amministrativi a tempo indeterminato e gli stipendi di quelli già assunti vengono bloccati per 4 anni. I contratti dei precari invece sembrano non avere più futuro.


Ora, dopo avervi scritto parecchie bugie e balle raccontate per anni dai membri degli organi decisionali accademici (cioè i professori universitari) vi chiarisco invece cos’è veramente accaduto negli ultimi 4 lustri:

1989: A Forlì si insediano i primi corsi di laurea. Si trovano fondi per strutture e si decide di investire su un territorio nuovo per poter trovare nuovi investitori interessati a finanziare ricerca e progetti che a Bologna non avrebbero avuto futuro oppure non avrebbero destato interesse.

2000: Costruiti gli uffici, le aule e i servizi, a Forlì nascono le Facoltà. I professori e ricercatori, afferenti a Dipartimenti di ricerca a Bologna, vengono incardinati nelle nuove strutture. Ovviamente per lo sviluppo di una Facoltà servono risorse umane aggiuntive ed è ovviamente il pretesto per assumere senza ritegno e senza logica docenti e ricercatori tramite concorsi ovviamente pilotati. C’è chi in pochi anni, quasi per magia, diventa professore associato, oppure ordinario. Opportunità queste difficili da portare a compimento nelle Facoltà bolognesi, affollate come non mai di personale docente voglioso di “fare carriera”.  A Forlì si possono occupare così le poltrone e automaticamente sedersi così nei salotti che contano. I finanziamenti per i progetti di ricerca a volte allucinanti ( “l’importanza del ballo latino nella società”) sono propinati da enti del territorio o Fondazioni interessate a detassare gli utili delle loro case madri. Gli interessi dal punto di vista economico quindi superano di gran lunga quelli d’impartire cultura e conoscenza.

2001: L’inizio della fine. Con il DM 509/99 le Facoltà in Italia istituiscono corsi di studio inutili, senza sbocchi lavorativi e che hanno l’unico fine di far assumere altro corpo docente. Questi corsi di laurea folli ed assurdi permettono ai professori di portare avanti i loro interessi personali di ricerca e di tenere continuamente le tasche piene di soldi per pubblicare i loro studi “fondamentali” per la società e per gli studenti universitari.  Anche nell’Università di Bologna questo avviene e i punti organico assegnati nel piano strategico d’Ateneo vengono utilizzati totalmente per assumere corpo docente, mentre per il personale tecnico amministrativo si prevedono prevalentemente contratti di collaborazione. Ma questi sono solo dettagli: passa il messaggio che “all’università i soldi non mancano e anche con un contratto a progetto si può pensare di costruire un futuro, nessuno ti potrà mai lasciare a casa!!!”. Intanto però il corpo docente si sistema...

2008: Dopo sette anni di folli concorsi d’assunzione e imbarazzanti istituzioni di corsi di laurea o Master truffa, il DM 270/04 impone un primo freno: ridurre i corsi di studio, far svolgere più ore d’insegnamento ai professori e ridurre contratti di collaborazione stipulati con professionisti esterni chiamati ad insegnare solo per interessi personalistici di chi li ha scelti.
Questo cambio di rotta rappresenta il chiaro fallimento dell’autonomia didattica e dell’autogoverno delle università. Si è messo al centro di tutto la carriera del corpo docente anziché la qualità dell’istruzione sempre più lontana dal mondo reale e del lavoro (le classifiche internazionali di rating delle università sono per noi imbarazzanti se andiamo a cercare in graduatoria la nostra prima rappresentante italiana).
Alcune università del nostro paese cominciano a dichiarare fallimento (il caso di Siena su tutte), mentre a Bologna si cerca di contenere le spese di gestione colpendo soprattutto i tecnici amministrativi precari. I docenti, tutelati da assunzioni a tempo indeterminato sono blindati, i tecnici-amministrativi intravedono tempi durissimi.

2010: La Riforma Gelmini diventa legge. Sebbene con i suoi innumerevoli difetti, l’impianto legislativo ha uno scopo dichiarato ed in linea di principio corretto: abbattere e distruggere gli sprechi clientelari che negli ultimi decenni hanno sfasciato l’università italiana.
La nuova legge impone la revisione degli Statuti, dei Regolamenti e soprattutto prevede una rivoluzione nella Governance delle università. Il Consiglio di amministrazione diventa il fulcro delle decisioni strategiche sostituendo il Senato Accademico, e soprattutto i Dipartimenti vengono intesi come perni della ricerca e della didattica. E le Facoltà? In sintesi la legge ne prevede una drastica riduzione, oltre a limitarne il potere decisionale. Già, quella parola magica: “potere”. Svuotate di “potere”, le Facoltà diventano per i docenti strutture superflue ed inutili. Chiaro quindi che la soluzione migliore, per continuare ad avere “potere”, risorse e peso politico, è quella di ritornare alla base, cioè emigrare di nuovo verso i Dipartimenti bolognesi ed abbandonare la Romagna.
E se si decidesse di trasferire un Dipartimento di ricerca a Forlì per salvaguardare i milioni di euro investiti nel progetto Multicampus e per non cestinare bellamente 20 anni di progetti e prospettive ambiziose?
Pare che a questa domanda i responsabili istituzionali delle sede forlivesi abbiano risposto “picche”. Troppo dura per i docenti fare i pendolari  Bologna-Forlì per venire a lavorare. Per questa “casta” che guadagna tra i 2000 ai 6000 Euro netti al mese rappresenta un sacrificio troppo grande! Come si può pretendere di instaurare Dipartimenti in Romagna quando tutto “deve” essere accentrato a Bologna per un’ottica di razionalizzazione e risparmio di risorse!!!
E il progetto Multicampus? Il sogno del Campus universitario? Tutto al macero per salvaguardare gli interessi personali ed economici di pochi.
Ma se Forlì verrà sventrata e prosciugata di strutture, Facoltà, corsi di studio ed uffici di amministrazione, cosa accadrà al personale tecnico amministrativo che lavora in città?
Quelli più fortunati, cioè i tempi indeterminati, si vedranno forse trasferiti a lavorare in altri lidi, diventando pendolari (si parla per la maggior parte di donne con famiglia) sorretti da uno stipendio che oscilla tra i 900 e i 1300 Euro al mese.
I precari, invece, si vedranno appiedati con i più sentiti ringraziamenti da parte del Rettore, del Direttore amministrativo e di tutti coloro che hanno regalato illusioni a persone, ribadisco, persone, che credevano di aver trovato fonte di sostentamento per il proprio futuro.

UNA VERGOGNA: le scelte politiche intraprese dalle istituzioni universitarie saranno ancora una volta decisioni prese in maniera personalistica, per la salvaguardia dei loro interessi. E i poveri tecnici-amministrativi? Carne da macello in questo vortice di egoismo e di incapacità di governare e gestire la Cosa Pubblica.

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EDITORIALE 2

L'Equità nelle scelte


Decidere, scegliere… Quant’è dura per chi ha delle responsabilità dover intraprendere la strada giusta o quantomeno imboccare quella meno sbagliata.. Un mestiere difficile quello del capo famiglia, del leader di un gruppo, del coordinatore di qualsiasi organizzazione…
Esistono delle basi corrette sulle quali fondare le proprie decisioni a volte impopolari? Probabilmente sì: il cuore, la ragione, il cuore e la ragione in egual misura, l’irrazionalità. Ciascuno di noi, qualora fosse nella situazione di dover decidere su qualcosa, si troverebbe quasi sempre a favorire qualcuno a discapito di qualcun altro.
Come deve agire un buon padre o una buona madre di famiglia? All’interno di un nucleo familiare le scelte devono essere intraprese in base a un mix di razionalità e di cuore. I sentimenti e i legami in questo contesto sono troppo forti: come si fa per esempio ad avere la forza di favorire uno dei propri figli, o uno dei propri nipoti? Obiettivamente anche se la ragione ci inducesse a pensare ad un’ipotesi di questo genere, sono certo che il nostro cuore bilancerebbe il peso della decisione su tutt’altra strada.
E tra amici? Se qualcuno venisse individuato per decidere su un progetto o un contenzioso, in che modo il membro di quel gruppo dovrebbe effettuare la scelta? Credo che anche in questo caso il connubio di razionalità e di sentimenti possa costruire le fondamenta per arrivare al giusto compromesso.
Ma in un ambiente lavorativo vige lo stesso sistema? In che modo il capo, il responsabile, il Dirigente deve portare avanti il bene di un’ area, di un’unità organizzativa, o di un gruppo di persone?
Spesso, comunemente, si fa la battuta affermando che “tutti noi ci sentiamo commissari tecnici” (ennesima metafora sul calcio, ndr) e che ci piace dall’esterno vestire i panni di chi ha l’onore-onere di prendere talune decisioni, giudicando impietosamente e senza strumenti il legittimo incaricato a farlo.
Se è corretto quindi non andare a giudicare una scelta specifica, può essere costruttivo ipotizzare in che modo questa dovrebbe essere intrapresa. Molte fabbriche ed aziende individuano esternamente il capo-reparto degli operai oppure un manager amministrativo perché i proprietari sanno che pescando dall’interno la figura ricercata si creerebbe inevitabilmente un disquilibrio di opportunità. Se il prescelto fosse selezionato dall’interno della struttura, avrebbe la capacità di richiamare all’ordine i colleghi con i quali aveva condiviso fino a ieri gli stessi problemi lavorativi o i weekend al mare? Sarebbe in grado di portare avanti senza essere condizionato dalle amicizie gli obiettivi richiesti dalla proprietà per la quale lavora? Probabilmente no. 
E’ corretto che il nostro Pietro Rea affidi all’amico del padre scomparso l’operazione “Trenta e lode”? Che cosa lo ha spinto a questa decisione? Un senso di riconoscenza verso un amico-agente demotivato e ormai desolatamente pronto alla pensione? Rea era fermamente convinto che Renzi avesse in mano le potenzialità per risolvere il caso? Oppure sono vere entrambe le cose?
E’ difficile essere capi, è complicato nell’organizzazione del lavoro scindere le amicizie extra lavorative con le responsabilità. Probabilmente un vero capo non dovrebbe farsi condizionare dai legami cercando di perseguire sempre i risultati migliori senza pensare a mugugni, a pianti o a saluti negati.
Il rapporto amicizia/amore-lavoro è molto complesso e purtroppo, a mio parere, poco funzionale se costruito su livelli gerarchici diversi. Tutti i protagonisti di questo rapporto perdono inevitabilmente di credibilità (a volte anche solo per mera gelosia) da parte degli osservatori o dei lavoratori esterni a questo legame. A rimetterci spesso sono proprio le stesse persone unite da questi affetti: con pregiudizi costruiti a volte in maniera del tutto infondata vengono messe in secondo piano anche le reali capacità della persone.
Riassumendo, un capo deve portare a compimento gli obiettivi che si è imposto di raggiungere o che il proprio superiore impone di ottenere. Per la credibilità non basta però ottenere i risultati perseguiti: il capo viene giudicato anche per il modo in cui riesce a governare la propria organizzazione. La sua credibilità passa anche da questo. Rea probabilmente ha macchiato la sua imparziale e indiscussa leadership facendosi per una volta condizionare dal cuore. E’ stato giusto quindi affidare a Renzi l'operazione“Trenta e lode”? Se avesse proseguito a lavorare come capo della squadra mobile a Forlì, avrebbe fatto la stessa scelta?


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EDITORIALE 1

“Perché io sì e tu no?”

È passato circa un mese e mezzo dall’uscita del romanzo e sono stati diversi i riscontri che i lettori, soprattutto quelli che mi hanno parlato personalmente, mi hanno evidenziato. La cosa che mi ha dato più soddisfazione è stata sicuramente quella di vedere ed ascoltare persone che hanno commentato temi diversi, a dimostrazione del fatto che “trenta e lode” è un libro trasversale, capace di stuzzicare i pensieri di tanti su molteplici questioni. Sono sincero; questo risultato per me è stato una delle soddisfazioni più grandi.
Chi prova a scrivere e poi ha la fortuna addirittura di pubblicare sa benissimo che i propri pensieri, i propri sogni e le proprie idee saranno messe in discussione da chi poi deciderà di sfogliare e leggere quel testo. Io sapevo quindi quali potevano essere le conseguenze delle mie parole o delle mie riflessioni, ma nonostante questo sono andato avanti, perché credo che la libertà di pensiero sia un valore, anche se la nostra società vive costantemente in trincea, alla ricerca dell’abbattimento del nemico che non la pensa come noi. Il nostro è il paese dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Berlusconiani e degli anti-Berlusconiani, oppure, per riprendere una metafora a me cara, per qualsiasi tema sembriamo tutti degli ultrà allo stadio: la ragione sta sempre dalla nostra parte e l’avversario contrapposto ha per definizione torto e deve essere a tutti i costi demonizzato.
Quando ho deciso di evidenziare alcune situazioni curiose ed ingiuste presenti nel mio mondo lavorativo (l’università), lo stesso che mi ha fatto crescere, che mi ha regalato una stabilità remunerativa e sociale, non lo ho fatto certo per ingratitudine o per un becero moralismo. Ho deciso invece di esprimere alcune considerazioni, giuste o sbagliate che siano, per mettere in discussione un sistema che ha ancora grandi margini di miglioramento.
Io credo infatti che “chi di morale ferisce poi di morale perisce” e io sono il primo infatti ad inserirmi nel lungo elenco dei dipendenti pubblici non privi di macchia, ma questo non vuol dire che non si possano manifestare le proprie idee su un mondo ovattato che ha come difetto più grande quello di NON ESSERE GOVERNATO E CONTROLLATO.
Il pianeta del pubblico impiego si basa su “migliaia di cavilli normativi” e allo stesso tempo di “zero controlli e zero punizioni”, e i suoi elementi, cioè NOI dipendenti, spesso sappiamo solcare con disinvoltura questo mare di contraddizioni, riuscendo ad ottenere il massimo dei benefit rispettando spesso per assurdo le norme dettate dalla legge.

Però c’è una cosa che assolutamente non riesco a sopportare, e forse è stata propria questa la scintilla che ha fatto accendere il fuoco dentro me: il non rispetto del prossimo.
Quanto volte ci capita di stare ordinatamente in fila alle poste, in banca o alla cassa di un centro commerciale e vedere un furbetto (uso questo termine perché non vorrei autocensurarmi) che con una stupida scusa o addirittura in silenzio con naturale indifferenza salta la lunga attesa e si proietta a ridosso dell’inizio della coda. Oppure quante volte ci è capitato un fenomeno (idem come sopra) che seppur entrando dopo di noi ci frega l’unico posto libero nel parcheggio andando contromano e anticipandoci così sul tempo, facendoci rischiare così di perdere il treno o l’autobus… Poi, trovato finalmente un spazio lontano dove parcheggiare, corriamo stravolti senza respirare verso la nostra meta e proprio in quell’instante arriva il genio dell’ultimo minuto, il quale, parcheggiando nello spazio dei disabili a 50 metri dalla ferrovia o dalla fermata, mette bene in vista il pass che utilizza forse per il genitore o il nonno, e si incammina tranquillamente fresco e pettinato verso la sua destinazione.

Potrei continuare con un infinito elenco, ma la domanda che continuamente mi pongo è questa: “perché tu sì e io no?”
Le risposte posso essere tante: “Sono il più c+--++-e!”, “Siamo figli di una cattiva società” oppure “gli uomini sbagliano per natura” altrimenti “Capita a tutti di provarci, capita anche a te! Non ti scandalizzare!”, e perché no “L’occasione fa l’uomo ladro!”. Tutte risposte vere ed insindacabili, ma se vogliamo cambiare la società in cui viviamo dobbiamo partire dalle fondamenta che sono rappresentate dal rispetto verso il prossimo.
In poche parole quello che voglio cercare di spiegare è che in una comunità di persone (la famiglia, un gruppo di amici, un condominio, un quartiere, una città e perché no, un ambiente lavorativo) è fondamentale il rispetto delle regole soprattutto per il rispetto verso gli altri, per riuscire a costruire un ecosistema equilibrato, senza invidie, malumori e ingiustizie. Quindi la domanda che ciascuno di noi dovrebbe porsi non è “perché tu sì e io no?” ma “PERCHE IO Sì E TU NO?”.

Ciascuno di noi, in situazioni e contesti diversi, può avere in mano poterI o strumenti che ci possono favorire individualmente anche senza creare un danno a coloro che vivono all’interno dello nostro stesso gruppo o comunità. Però perché “IO Sì E TU NO?”. Credo che molti dei problemi della nostra società derivino proprio dalla non risposta a questa domanda. Dal capo di un governo all’ultimo dei cittadini, nessuno sa dare risoluzione a questo interrogativo.